Omelia nella solennità di San Castrense Patrono dell’Arcidiocesi di Monreale
Conferimento del Ministero dell’Accolitato al seminarista Vito Gallina
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi parroci, sacerdoti e diaconi, carissimi seminaristi, gentilissime autorità civili e militari, signor Sindaco è il secondo anno che, con voi, celebro la Solennità di San Castrense invocandone l’intercessione per la nostra Chiesa, il nostro territorio e, in particolare, per la città di Monreale.
Lo scorso anno, sottolineai come San Castrense è per noi un invito a vivere la logica del dono. Ricordai che, a differenza del regalo, il dono non è richiesto, né atteso e non risponde a nessun bisogno di chi lo riceve. Per questo rischia di essere poco valorizzato. Così è per San Castrense: essendo giunto nella nostra terra come dono di nozze per il re Guglielmo II, si rischia di non comprenderne il valore, sciupandone così la testimonianza e lasciando che si affievolisca la devozione. Certo, anche, la collocazione temporale dell’11 febbraio, dies natalis del santo vescovo, non ci favorisce perché coincide con la festa della Beata Vergine Maria Immacolata di Lourdes e la celebrazione della Giornata Mondiale del Malato. Saluto e ringrazio per la presenza i volontari dell’Unitalsi che ci richiamano al compito di essere anche noi segno della cura che Cristo riserva a coloro che vivono la sofferenza. Grazie per quello che fate, aiutateci ad essere sempre più attenti ai bisogni dei malati.
Quest’anno, la nostra celebrazione è resa più gioiosa dal conferimento del Ministero dell’Accolito al nostro seminarista, Vito Gallina. Caro Vito, a te oggi viene affidato un servizio prezioso. Le parole del rito, che tra poco celebreremo, sono chiare: “Questo ministero ti impegni a vivere sempre più intensamente il sacrificio del Signore […]. Ama di amore sincero il corpo mistico del Cristo, che è il popolo di Dio, soprattutto i poveri e gli infermi”. Vito, è questo il servizio che oggi la Chiesa ti conferisce: non la dignità superiore di poter servire all’altare o di distribuire la santa Comunione, ma la dignità che ti viene dall’amare il popolo santo di Dio così come Gesù ha insegnato.
La Parola di Dio che è stata proclamata insiste sul tema della gioia. Il profeta Isaia esorta: «Prorompete insieme in canti di gioia», a lui fa eco l’espressine di Gesù riportata dall’evangelista Giovanni: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». L’invito alla gioia, mi pare però, acquisti un sapore particolare nella celebrazione di San Castrense vescovo di Cartagine, i cui racconti di vita partono sempre dalla persecuzione vandalica, del V secolo d.C., da lui subita insieme ai cristiani dell’Africa.
Come si può parlare di gioia in un contesto di persecuzione? Sarebbe stato più consono scegliere testi biblici contenenti l’invito alla fortezza, alla speranza, alla riconciliazione e alla pace.
Sono considerazioni che sorgono dall’incontro della nostra esperienza quotidiana con la Parola di Dio: con quale coraggio parlare oggi di gioia? Dove sta la gioia nel vivere un tempo in cui la violenza sembra essere diventata l’unica forma espressiva? Come parlare di gioia in un tempo in cui le risse e gli omicidi sono parte dei momenti di divertimento? In cui in nome della giustizia si fa la guerra, in nome della sicurezza si bombardano gli ospedali pediatrici? Come vivere la gioia in un tempo in cui l’abuso, in tutte le sue forme, si perpetra senza pudore? Dove si trova la gioia in un tempo in cui gli adulti sentendosi impotenti di fronte alla sfida educativa si ritirano delegando ai social questo delicato compito? Dove gli adulti che, invece, scelgono di impegnarsi, vengono pugnalati alle spalle? Che gioia può esserci nel vivere un contesto sociale in cui si tace di fronte all’ingiustizia e al male e, pur di non avere problemi, ci si gira dall’altra parte scegliendo come regola il “fatti i fatti toi… cu ti ci porta”? Come può esserci gioia nel vivere relazioni segnate dall’insicurezza, dalla paura e dalla diffidenza? Quale gioia può esserci in un mondo in cui la fraternità è sempre attesa e mai praticata? Potremmo ancora proseguire con molte altre domande…
Sono le domande provocatorie che la Parola di Dio suscita in chi la ascolta. Eppure noi cristiani abbiamo il dovere della gioia. Se siamo autentici cristiani non possiamo non vivere la gioia. In un suo sermone san J. H. Newman affermava che la definizione del cristiano è: colui che cerca Cristo! E diceva che il segno essenziale, il fondamento di un cristiano e la conseguenza del suo incontro con Cristo, è la gioia: poiché ha ottenuto ciò che cercava. La santità è gioia! Spiegava inoltre: “quando dico gioia la intendo in tutte le sue forme, perché nella vera gioia sono incluse molte grazie: le persone gioiose sono amorevoli, perdonano, sono munifiche. La gioia, se è quella cristiana, rende gli uomini pacifici, sereni, riconoscenti, gentili, affettuosi, di animo dolce, piacevoli, speranzosi; è graziosa, tenera, commovente, vincente” (cf. Sermons on Subjects of the Day: Sermon 19. The Apostolical Christian).
Queste parole sembrano tratteggiare perfettamente il profilo di San Castrense. Vorrei ricordare un episodio della sua vita così come è presentato negli Acta Sanctorum dei Bollandisti dove si narra che, un giorno, mentre il santo vescovo stava indossando la stola episcopale, uno dei suoi persecutori, volendolo torturare, lo afferrò e trascinò tirandolo per la stola a mo’ di fune. Subito, entrambe le braccia di quell’uomo si “inardirono”. Vedendo ciò “Quello si gettò ai piedi del santissimo Castrense e, gridando e piangendo, diceva: «Pietà, pietà, Sacerdote di Dio, abbi pietà di me e liberami da questo male». Mosso a compassione da queste parole S. Castrense si rivolse ai confratelli e agli altri vescovi e così parlò: «Miei Fratelli e Signori, dobbiamo ricordare le parole del Signore e Salvatore nostro, il quale ci ha raccomandato di pregare anche per i nostri persecutori e calunniatori. Perciò preghiamo tutti insieme…». Nello stesso momento ognuno di loro pregò Dio nel proprio cuore e tutti insieme risposero: Amen”. A queste parole le braccia e le mani di quell’uomo “guarirono improvvisamente”.
È il primo miracolo attribuito a Castrense. A me pare che il miracolo più grande sia ciò che il Vangelo ha operato nella vita di quegli uomini: l’amore per il nemico.
Questo opera il Vangelo. Questo genera l’incontro autentico con Cristo. Questa è la vera gioia. Di questo siamo testimoni. A questo ci invita la testimonianza di San Castrense.
Consapevoli che “predicare il Vangelo” non è fare omelie, ma mostrare con la vita ciò che crediamo, vi invito a fare vostre le parole di San Paolo che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: «guai a me se non predicassi il Vangelo». Se tutti iniziassimo ogni nostra giornata ripetendoci queste parole dopo aver fatto il segno della croce, allora saremmo lievito per un mondo nuovo, capaci di vivere la fraternità sollecitando i fratelli e le sorelle al perdono e alla promozione del bene.
A te san Castrense ci rivolgiamo: aiutaci a vivere il Vangelo per essere costruttori di un mondo nuovo che abbia come fondamento la gioia del Risorto che è pace, amore, giustizia, rispetto, responsabilità, servizio. Sostienici nell’impegno a vivere la fraternità perché, illuminati dalla Parola di Dio e sostenuti dalla tua intercessione possiamo essere, per questo tempo, uomini e donne di speranza.
Amen