L’unità nella forma della fraternità – Inizio anno Pastorale 2023-2024

11-10-2023

Carissimi fratelli e sorelle, amati sacerdoti, religiose/i, consacrate/i vi saluto tutti con questa parola di Gesù: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). È ciò che meglio esprime i sentimenti che, nell’odierna celebrazione, abitano il cuore del vescovo dopo un anno di cammino a servizio di questa stupenda Arcidiocesi. L’ho detto e l’ho ripetuto sin dal primo giorno in cui sono venuto tra voi: La bellezza di questa nostra cattedrale è solo pallido riflesso della bellezza della Chiesa viva. Oggi posso ripetere questa affermazione con maggior consapevolezza perché… ora ne ho le prove!
Inizio a conoscere ciascun sacerdote, i religiosi e le religiose, i consacrati e le consacrate; ho incontrato tanti uomini e donne, tanti giovani e tantissimi bambini… Mi avete raccontato i vostri desideri, le paure, le difficoltà; ho visto la vostra generosità nei servizi pastorali e, soprattutto, mi avete testimoniato la vostra grande speranza. Un pensiero di particolare affetto va, in questo momento, agli ammalati, membra deboli del nostro corpo ecclesiale e per questo preziose, che pur non potendo partecipare a questa celebrazione pregano con noi. Sentiamoci anche in comunione di preghiera con la comunità delle nostre monache Carmelitane di Giacalone.
Lo scorso anno vi avevo proposto come immagine biblica a cui ispirare la vita ecclesiale il capitolo 12 della prima lettera ai Corinzi, dove Paolo consegna l’immagine del corpo come paradigmatica per la vita della comunità cristiana. Insieme avevo proposto tre passi l’umiltà, la condivisione e la cura, dissi: “queste tre parole siano i primi passi del nuovo anno pastorale, siano impegno prima personale, ma poi anche comunitario”. Vi invito a mantenere la similitudine paolina del corpo, con quelle tre espressioni, come orizzonte del nostro operare.
In questa direzione sono già stati fatti molti passi, alcuni dei quali anche facilmente riconoscibili in certune scelte pastorali. Vorrei, a tal proposito, ringraziare voi cari sacerdoti che avete accolto la fatica del camminare insieme mettendovi in gioco nelle due settimane di formazione vissute a fine agosto e inizio settembre a Poggio San Francesco, lì abbiamo avviato un processo di rivitalizzazione della nostra fraternità presbiterale.
Sull’esempio dei sacerdoti invito tutti voi, tutta la Chiesa diocesana, a perseverare nel perseguire l’unità nella forma della fraternità: è questo il compito che consegno alla Chiesa monrealese. L’unità è un dono battesimale, in esso, per grazia tutti siamo stati costituiti; la fraternità è vocazione, quindi essa passa attraverso la decisione di ciascuno di accoglierla, curarla, farla crescere. Scegliamo la fraternità come obiettivo principale per rinnovare il volto della nostra Chiesa.
Colgo dalla liturgia della Parola del giorno, che, quindi, non abbiamo scelto ma ascoltata e accolta come Parola libera di Dio detta a questa nostra assemblea eucaristica, due accentuazioni che vorrei accompagnassero il cammino ecclesiale in questo anno pastorale 2023-2024: la parola Padre-Abbà con le sue conseguenze e il verbo lasciare andare. Insieme vi consegnerò tre domande su cui vi chiedo di lavorare nelle parrocchie guidati dai vostri sacerdoti.

  1. La parola Padre

Abbiamo ascoltato dal Vangelo l’invocazione: «Signore, insegnaci a pregare». L’evangelista Luca non specifica il nome di chi presenta questa richiesta, dice semplicemente: «uno dei suoi discepoli». Sappiamo che, questo tacere l’identità dei personaggi di cui si narra, intende lasciare spazio al lettore affinché, esso stesso, si identifichi con il personaggio anonimo: sono io, sei tu quel discepolo. Quante volte, infatti, abbiamo rivolto questa stessa richiesta a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare».
Il discepolo non domanda che gli venga insegnata un’altra formula da ripetere all’occorrenza, se così fosse, avrebbe domandato: “Signore, insegnaci le preghiere”. La richiesta del discepolo è molto più profonda, coinvolge la sua intera esistenza. È utile notare che il Vangelo non dice che egli abbia “sentito” le parole pronunciate da Gesù, ma da lontano lo “vede” mentre prega. I discepoli guardano Gesù che prega e vedono le conseguenze della sua preghiera, è questo che attrae e affascina: l’effetto della preghiera non l’atto del pregare. Comprendiamo allora la profondità della richiesta del discepolo che potremmo esprimere in questo modo: Signore insegnaci a stare davanti a Dio e davanti al mondo come ci stai tu; insegnaci a vivere come te tutto ciò che accade nella pace, nella fiducia e nella mitezza. È proprio questo che desidero chiedere per la nostra Chiesa in questo anno: «Signore, insegnaci a pregare», insegnaci a stare al mondo in modo nuovo.

Su questo punto vorrei affidarvi alcune domande, a cui vi chiedo di rispondere comunitariamente nella preghiera e nel discernimento:

  • Qual è il modo di stare al mondo di “noi” Chiesa di Monreale (parrocchia, Istituto religioso, aggregazione laicale, presbiterio…)?
  • Come ci vedono coloro che non partecipano alla vita liturgica?
  • Di quale “differenza” siamo testimoni? Quale “differenza” dovremmo invece mostrare?
  • Quando la gente ci guarda, desidera essere come noi? Ci è mai stata rivolta la domanda: “insegnami a vivere come vivi tu”?

 

  1. La differenza cristiana

Da dove attingere la differenza cristiana che affascina il mondo?
La troviamo espressa interamente in una parola: «Quando pregate, dite: Padre». L’antica dottrina degli apostoli, la Didachè (VIII, 3), insegna che bisogna pregare il Padre nostro tre volte al giorno. Lo facciamo tutti, eppure, per esperienza, sappiamo che questo non basta per essere “differenti”. Ciò che ci fa essere differenti non è il “dire”, ma il “fare”, cioè il vivere le conseguenze della parola Abbà, che sono fondamentalmente due e inscindibili: sentirsi figli e, contemporaneamente, sentirsi fratelli e sorelle con gli altri figli di Dio.
La fraternità, quindi, non è “il pallino del vescovo”, o una strategia pastorale, ma nemmeno è una scelta opzionale per il cristiano. Essa è naturale conseguenza per chi si rivolge a Dio chiamandolo con il suo vero nome: Padre. Senza la fraternità non c’è nemmeno figliolanza; senza la fraternità non possiamo pronunciare il nome di Dio che è Padre, possiamo pronunciare altri nomi: creatore, onnipotente, onnisciente, giusto…, ma non Padre; senza fraternità vissuta, il dio in cui crediamo non è il Dio di Gesù Cristo, perché credere nel Dio di Gesù Cristo significa vivere da “fratelli tutti” a cominciare da chi è convocato alla mensa della Parola e dell’Eucaristia.

Ecco un’altra domanda per il nostro discernimento comunitario:

  • Quando faccio esperienza di fraternità?
  • Come alimento la fraternità?
  • Cosa posso fare io e cosa possiamo fare insieme per crescere nella fraternità?

 

  1. Lasciare andare

Nella ricerca di una risposta, mi pare utile tenere presente l’importante spunto offerto dalla prima lettura. Il libro del profeta Giona ci presenta, in questi versetti, un esempio di “deformazione del nome di Dio”, un rischio che anche noi corriamo quotidianamente.
Giona conosce il nome di Dio, così come anche noi lo conosciamo. Eppure, a Giona spiace che Dio si manifesti come egli è, infatti dice: sono fuggito «perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato».
Egli è stato mandato a Ninive per profetizzare: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» e adesso pretende che questa profezia si realizzi, perché ne va della sua reputazione di profeta. Giona dimentica che Dio lo ha inviato per chiamare a conversione, la sua minaccia era condizionata: «Se non vi convertite, perirete».
Ninive si è convertita, Dio è contento perché ora può manifestare “il suo nome” che è Abbà: un nome pieno di forza e tenerezza, di decisione e misericordia.
Giona invece è in collera, non vuole che il nome di Dio si manifesti e rimane solo, rancoroso, frustrato a rimuginare come farla pagare ai niniviti e anche a Dio, dal cui operato prende le distanze. Così, Giona, si ritrova a disperarsi e desiderare addirittura di morire a causa della morte di un “ricino”. Egli, deformando il nome di Dio, non è più in grado di gioire per la vita nuova dei niniviti; è in grado soltanto di piange la morte di un albero, da cui riceveva sollievo e ragioni di vita.
Come assomigliamo a Giona quando restiamo soli, arrabbiati, rancorosi mentre piangiamo la morte dei nostri “ricini” che rappresentano le tradizioni, le abitudini, i ruoli decaduti, i titoli altisonanti ma vuoti di senso, i giochi di potere… sotto i quali si cerca rifugio dal sole e dal vero nome di Dio.
Come Giona sprofondiamo in una frustrazione rabbiosa alla ricerca di alleati e modi per farla pagare ai “colpevoli”, a coloro, cioè, che non vogliono partecipare alla ostinata rianimazione dei “ricini” morti e tra questi colpevoli, come nel caso di Giona, c’è anche Dio-Padre.
Quante volte ci lamentiamo perché le cose non vanno come a noi sembrerebbe giusto! Noi vogliamo riuscire in quel che facciamo; vogliamo avere rapporti facili e tranquilli con tutti; vogliamo che il nostro punto di vista prevalga; noi vogliamo che i cattivi siano eliminati… E Dio ci lascia sbagliare, ci lascia nelle difficoltà dei rapporti, lascia che gli altri non tengano conto delle nostre opinioni, fa splendere il suo sole sui buoni e sui malvagi.  Le nostre reazioni spontanee sono in contraddizione con il nome di Dio.
Carissimi fratelli e sorelle se vogliamo vivere la vita nuova del Vangelo dobbiamo lasciare andare i “ricini”. Basta! È tempo di cambiare! È tempo di accogliere in modo nuovo il nome di Dio che è Padre e che sempre chiama al cambiamento, cioè alla conversione.

Da qui altre domande per le nostre comunità:

  • Quali sono i nostri “ricini”?
  • A che cosa siamo attaccati più che alla vita?
  • Che cosa ci sta a cuore più della salvezza dei fratelli e delle sorelle?
  • Che cosa dobbiamo avere il coraggio di lasciare andare?

Carissimi fratelli e sorelle in quest’anno pastorale facciamo nostra questa invocazione: Gesù, insegnaci a pregare! Ripetiamola spesso, nella sua verità e profondità.
Invochiamo il dono dello Spirito Santo che ci conduca dentro un serio discernimento sul modo in cui la nostra Chiesa locale è chiamata ad abitare questo tempo e questo spazio.
Chiediamo la forza di riconoscere i nostri “ricini” e di lasciare andare tutto ciò che deforma il nome di Dio.
Maria, Madre della Chiesa e Madonna del popolo, San Castrense con tutti i santi, i beati e i venerabili della nostra diocesi intercedano per noi, perché insieme possiamo pronunciare nella verità il nome di Dio-Padre per vivere nella fraternità. Amen